Sullo scrivere, Vladimir Nabokov annotava che "...l'arte dello scrivere è un'attività futile se non comporta anzitutto l'arte di vedere il mondo come risorsa potenziale della narrazione...". E mai frase come questa è, a mio avviso, capace di racchiudere l'essenza dello scrivere.
Camminare nel mondo e guardare ogni dettaglio. Prestare attenzione con gli occhi e lasciarsi qualche istante di silenzio per rimanere in ascolto. Ascoltare cosa?, alcuni potranno chiedersi.
Ascoltare l'ispirazione per iniziare a scrivere.
Sì, ascoltare l'ispirazione e poi, tra parole e immaginazione, dare vita a un nuovo racconto che si fa interprete di dettagli osservati, di pensieri incontrati.
Corrono. La inseguono e non si fermano. O meglio, rimangono sospesi in qualche dove per poi riapparirle davanti, forti e impetuosi come sono i cavalloni di mare: per qualche istante le ginocchia sono immerse in una calma, che è solo apparente, e all’improvviso vengono risucchiate e attorcigliate dalla schiuma bianca, manifestatasi all’orizzonte come innocuo ricciolo e divenuta indomabile e tiranna a riva.
Così sono i pensieri di Lea. Un po’ gitani nell’apparire e scomparire, un po’ cavalloni di mare nel loro moto di irruenza.
“Non pensavo potesse accadere”, se ne stava seduta sulla sua panchina. Sapeva benissimo che non era la sua panchina, intendendo con il possessivo quello che la maggior parte della gente avrebbe inteso. Era sua nel rappresentare il posto ideale che solo Lea sapeva far vivere e vibrare di energia.
Nessuna paura si impadroniva di lei quando si trovava seduta sulla sua panchina.
Quell’oggetto inanimato, impersonale, per Lea era un sostegno; le sue spalle trovavano accoglienza e potevano finalmente lasciare scorrere le tensioni, lasciar scorrere le preoccupazioni, senza l’ansia di far cadere qualcosa di fragile. Era il momento in cui le ginocchia erano ferme in attesa del cavallone schiumoso, che a breve l’avrebbe trascinata via da lì, e in attesa della carrozza gitana, che sarebbe venuta a prenderla.
“Cosa ne sarà ora della nostra unione?” si chiedeva.
“Riusciremo a ricostruire un confronto?”. Inaspettatamente l’astio è capace di avvelenare i legami più profondi. Un’anima sensibile e delicata, era l’anima di Lea. Da sempre si era costruita una corazza di forza, audacia, determinazione, che la rendevano forte ai più, e paradossalmente, inosservata a tutti.
“Cosa ne sarà di tutto ciò che avevamo costruito? Delle promesse fatte, delle condivisioni”. Seduta sulla panchina, Lea provava la sensazione di varcare la soglia d’ingresso sull’Universo dove le domande gitane vorticavano sospese nelle costellazioni dell’esistenza.
Le domande la ingannavano con le loro arti magiche, la interrogavano non su quello che sarebbe stato, ma su ciò che era stato sino a poco prima. La confondevano, le si presentavano travestite da futuro, per poi mostrarsi in tutto il loro passato: quando aprire la porta di casa era una gioia, quando le vacanze erano il momento in cui si poteva finalmente stare tutti assieme; quando c’era felicità di accogliere chiunque passasse davanti a quel cancello.
La panchina attendeva silenziosa il ritorno di Lea dall’Universo, era capace di farlo e di assicurarle una sosta di pace.
Lea si trovava a sorridere pensando a quanto un oggetto la confortasse rispetto a tutti i discorsi che la gente era solita pronunciare. Ora, però, il cavallone stava per arrivare, le sue ginocchia sarebbero state risucchiate. Doveva abbandonare la panchina e convivere nuovamente con l’impeto dei suoi pensieri che seduti comodamente sulla carrozza gitana, la ingannavano con il futuro.
“E adesso, cosa ne sarà… ?”, le chiedevano tenendola ancorata al passato “…di ciò che è stato?”.